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  • Giulia Guerrato

Viva il latino. Storie e bellezza di una lingua inutile


«La Storia deve sopportare la colpa di essere appunto Storia, e non Matematica», scriveva Wolf, filologo classico. «Colpa» ‒ aggiungerei ‒ che la Storia condivide con la Letteratura, da cui si pretende troppo spesso una scientificità che essa non può per sua stessa natura avere. Da questo presupposto nasce il libro di Nicola Gardini, Viva il latino. Storie e bellezza di una lingua inutile: raccontare il latino, il ruolo che ha avuto ed ha nella sua vita e ‒ soprattutto ‒ difenderlo dagli attacchi di chi crede in un futuro di automatizzazione, standardizzazione e macchine. Certo, quando ci si prefigge di fare divulgazione, si rischia ‒ per evitare tecnicismi ‒ di ottenere il risultato opposto, cioè di cadere nella banalità dei luoghi comuni. Ma il libro di Gardini ha il pregio di non essere una lezione ex cathedra per principianti o neofiti della materia, bensì un racconto profondamente intimo e personale, appassionato ed emozionante, libero dal vincolo dell’ordine cronologico imposto dalla didattica. Perché non è vero che solo gli esperti d’arte hanno il diritto di andare al museo e capirne qualcosa: chiunque può instaurare un rapporto suo proprio con l’arte e la letteratura e provare sue proprie emozioni ed impressioni. L’arte e la letteratura (che non sono ‒ in fin dei conti ‒ la stessa cosa?) parlano a chiunque sia disposto ad ascoltarle. E non a tutte le persone dicono le stesse cose, né a tutte le epoche. Da “asso nella manica” per non sfigurare nelle case degli amici ricchi (per ammissione dello stesso autore) a ragione di vita («il latino è vivo perché senza tanto latino non sarei chi sono»), il latino è variamente descritto e strenuamente difeso con argomenti più o meno condivisibili, che cercano – e trovano, almeno per quanto mi riguarda – conferma nei classicisti e mirano ad abbattere i pregiudizi degli anti-classicisti. Perché il latino è molto più di una mera “palestra grammaticale”: se bastasse declinare sostantivi e coniugare verbi per diventare più svegli, intelligenti o acculturati, perché non studiare qualche altra lingua moderna? Perché «attraverso lo studio amoroso dell’antichità, il presente scopre la sua stessa storicità e tenta di istituzionalizzarsi come resistenza alle forze disgregatrici del tempo mediante un perfezionamento morale e linguistico dell’individuo». In altre parole, perché attraverso il latino scopriamo chi eravamo, chi siamo e chi non siamo più. Perché «studiare il latino significa anche questo: venire a patti con la perdita; imparare a gioire del poco (peraltro ancora moltissimo) che la fortuna ci ha lasciato, rispettarlo, averne cura». Con ciò non si intende dire che dobbiamo essere tutti latinisti (anzi!), ma che dobbiamo prenderci cura del passato in tutte le sue forme; così come ci prendiamo cura dei monumenti storici, dobbiamo prenderci cura anche di quelli letterari, anche se non sono fisici: essi esistono nella misura in cui noi li conserviamo, studiamo e tramandiamo. E ciò li mantiene vivi. Morto è ciò che non ha più nulla da dire e trasmettere. «Con Virgilio mi commuovo; con Tacito mi appassiono alla crudeltà; con Lucrezio mi allontano e sprofondo e vortico; con Cicerone sogno la perfezione in tutto, pensiero, discorso, comportamento. Seneca mi dà lezioni di felicità», scrive Gardini, fissando con queste poche parole – credo – il pensiero di molti. Spenderei qualche altra riga per concludere con una delle più belle definizioni dello studio del latino che ho potuto diffusamente trovare nel corso di questa lettura e che si può ben estendere allo studio in generale, quello studio che implica esercizio, ragionamento e senso critico: studiare è «far pratica di una felicità […] che nasce […] dal desiderio di interpretare, di andare un po’ più in là dell’evidenza». Far pratica di una felicità.


Foto scattata un uggioso 28 febbraio 2016.

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