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  • Immagine del redattoreLuca Nucera

Trump e il miracolo di Hillary


L'8 novembre scorso si è scritta la Storia: l'imprenditore miliardario Donald J. Trump ha vinto (a sorpresa?) le elezioni presidenziali degli Stati Uniti, diventando il 45esimo presidente, nonostante i sondaggi dessero per sicura la vittoria di Hillary Clinton. In realtà, l'ex first lady ha conquistato molti più voti effettivi del tycoon: ben 395.595 persone in più hanno preferito la Clinton a Trump - questo grazie al differente sistema elettorale americano, la cui spiegazione può essere letta qui.


Poco dopo aver avuto la certezza dei 270 Grandi Elettori a proprio favore, un emozionato Trump si è mostrato alla folla in visibilio. Chiaramente sorpreso (più di lui, solamente Hillary), ha tenuto il primo discorso da Presidente eletto. Ma a parlare non era più la stessa persona: il provocatore, il decisionista e l’arrogante non erano saliti sul palco insieme a The Donald. Sparita anche ogni traccia di un processo ad Hillary, a cui invece sono andati i suoi ringraziamenti e le sue congratulazioni: “abbiamo, nei suoi confronti, un grosso debito di gratitudine per il suo servizio al Paese”. Lo stupore cresce ancora quando apre al resto del mondo, promettendo sì di tutelare per primi gli interessi degli Stati Uniti, ma anche di voler trattare con ogni nazione in modo equo ed equilibrato. Nonostante i toni pacati a cui non siamo abituati, l’obiettivo resta sempre quello: ricostruire il Paese e rinnovare il sogno americano. Insomma, make America great again.


Il sogno americano, però, potrebbe non essere per tutti. Secondo il programma elettorale, Trump dovrebbe creare una taskforce specializzata nella “deportazione” dei clandestini: oltre sei milioni, secondo i dati forniti dal neopresidente, il cui interesse in questo ambito è rivolto verso il Messico. Proprio al confine con il Messico, Trump aveva promesso di costruire un muro – e di farlo pagare ai messicani: obiettivo un po’ ambizioso, considerando che dovrebbe costare circa 40 miliardi di dollari che il governo di Città del Messico ha già detto di non voler sborsare. Ma a vedersi sbattere le porte in faccia non dovrebbero essere solo i messicani: Trump ha promesso di imporre un bando nei confronti degli arrivi da alcuni Paesi, essenzialmente quelli a maggioranza musulmana.

Se queste misure sono difficilmente realizzabili, altrettanto complicata è l’abolizione dell’Obamacare, la legge di Obama approvata dalla Corte Suprema per garantire a tutti l’accesso alle cure mediche. Trump vorrebbe abolirla completamente, ma con molta probabilità dovrà rivedere il suo obiettivo. Con la sua abolizione, si creerebbe un deficit federale di circa 33 miliardi di dollari: semplicemente non verrebbero più riscosse le tasse imposte all'interno della legge per la propria autosufficienza. Ma questo non è l’unico problema che l’abolizione dell’Obamacare porterebbe con sé: sarebbe necessario sostituire il programma con un’altra legge, e la proposta repubblicana più completa è di Paul Ryan ma differisce in grande misura da quella abbozzata da Trump (prevede la possibilità di comprare assicurazioni su base statale, riduzioni fiscali e finanziamenti federali per il Medicaid, ma lascerebbe senza alcuna assistenza sanitaria oltre 25 milioni di persone).

Sostanzialmente fantasiosa è la teoria di Trump secondo cui i cambiamenti climatici sono una balla perpetrata dalla Cina, ma la cui applicazione comporterebbe seri danni per l’ambiente. Il programma è semplice: ritiro degli USA dagli accordi di Parigi, per farla finita con la guerra al carbone e aumentare le trivellazioni lungo le coste americane. Questa eventuale presa di posizione renderebbe del tutto irrealizzabile il contenimento del riscaldamento globale – obiettivo posto dagli accordi di Parigi.

Ma non finisce qui. La situazione può sembrare drammatica quando ci si affaccia sulla politica estera, di cui Trump ha affermato di essere esperto grazie alla televisione. Dopo aver definito la NATO obsoleta, il programma elettorale del neopresidente spinge per la rinegoziazione di tutti i trattati internazionali per ottenere condizioni migliori per gli USA. Tra questi trattati non rientrerebbero il TTIP con l’Europa, le cui trattative verrebbero interrotte (per fortuna), e il NAFTA, che verrebbe eliminato. Riguardo al problema del terrorismo internazionale e dello Stato Islamico, Trump ha espresso chiaramente le modalità d’azione: per prima cosa, occupare militarmente il territorio per prendersi il petrolio, in secondo luogo, “farli cagare a forza di bombe. Al di là del linguaggio, questo modus operandi creerebbe forti tensioni con la Russia, con la quale invece il tycoon ha intenzione di ripristinare i rapporti.

Sorvolando su altre questioni (la non-chiusura di Guantánamo; l’approvazione di metodi violenti durante gli interrogatori; l’identificazione dei terroristi in base alla loro appartenenza etnica), è chiaro che ciò che è stato detto in campagna elettorale non deve per forza coincidere con ciò che verrà fatto durante la presidenza: nonostante le urne abbiano garantito al partito repubblicano il controllo dell’intero Congresso, diversi sono i limiti ai poteri del Presidente – il più importante è il Congresso stesso, nel quale ogni membro vota per sé e la disciplina di partito è poca cosa. Potrebbe essere difficile per Trump riuscire a convincere abbastanza senatori e abbastanza deputati da poter far passare alcune delle sue proposte più ardite.

L’esito di queste elezioni, comunque, è ben chiaro: gli americani hanno votato per Hillary Clinton (60.467.245), ma è stato eletto Donald Trump. Non è né una contraddizione né un errore. Gli Stati Uniti sono una federazione alla base della quale c’è l’uguaglianza tra gli Stati federali, e il sistema elettorale garantisce al contempo governabilità e tutela di questo compromesso. È fondamentalmente sbagliato gridare allo scandalo e voler cambiare il sistema: questo modello ha assicurato la crescita e la stabilità degli Stati Uniti e non si può discutere dopo aver perso la partita. Hillary Clinton lo ha capito. Ed ora parliamo un attimo di Hillary e di Donald e di chi ha vinto – o perso – queste elezioni, ma soprattutto perché.


Donald Trump è sicuramente il vincitore – in verità semplicemente non ha perso. È riuscito a capire quali corde tirare e quanto tirarle per riuscire a convincere i delusi dal sistema. Ha vinto grazie all’elettore medio, piegato a metà sotto il peso della crisi economica e sotto la paura del terrorismo; l’elettore medio che ha trovato in Trump il nemico del proprio nemico, la classe politica democratica sorda alle richieste dell’americano comune. E si sa, il nemico del mio nemico è mio amico, con buona pace degli slogan e delle promesse elettorali.


Hillary Clinton ha perso, clamorosamente e definitivamente. Queste elezioni hanno chiuso l’era Clinton e la colpa è in buona misura della stessa candidata democratica – il resto della responsabilità cade sulle spalle del Partito. In molti hanno detto che Bernie Sanders avrebbe vinto: questo io non lo posso sapere, ma sicuramente l’intero establishment Democratico credeva che la presidenza fosse un atto dovuto ad Hillary. Le era dovuto perché era giusto che una donna diventasse presidente; le era dovuto per aver resistito a fianco di Bill nonostante i numerosi tradimenti; le era dovuto da Obama che l’aveva sconfitta nel 2008. È stata una lunga serie di errori miopi, tra i quali credere che le elezioni si vincano con i soldi e non con i voti. È proprio questo il miracolo compiuto da Hillary: riuscire a perdere con 886 milioni di dollari raccolti durante la campagna, contro gli appena 189 milioni di Trump, nonostante (o forse proprio per?) il sostegno degli amministratori delegati di tutte le più grandi imprese americane, di Wall Street e di oltre 300 media da ogni schieramento politico. Per riuscire a perdere nonostante l’appoggio che le stava dietro serve perseveranza nei propri errori. Il primo dei quali è stata la campagna: non per costruire qualcosa, ma per distruggere qualcuno – Trump. (E amen se aveva anche ragione). Ha attaccato Trump fino allo sfinimento, senza però soffermarsi troppo su cosa avrebbe fatto lei. E facendo così si è esposta irrimediabilmente: attaccando sempre e rispondendo alle accuse con menzogne ha trasmesso l’immagine di un candidato arrogante che si crede superiore a tutti. Mentire sui propri errori è stata la peggiore scelta che potesse fare: chiedere scusa era la cosa più naturale del mondo, la più ovvia – persino Trump l’ha capito. Ma non è finita. Hillary ha scelto di coinvolgere Madonna, Lady Gaga, Beyoncé nel tentativo di conquistare la fiducia dei millennials. (Trump ha optato per vertici militari, veterani e soprattutto su Rudolph Giuliani, sindaco di New York durante l’11 settembre – tutti considerati alla stregua di eroi e salvatori della Patria). I discorsi della Clinton apparivano noiosi, vuoti alle orecchie dei più giovani: Sanders era riuscito a coinvolgerli, ad infiammarli, a conquistarli. Nulla di tutto ciò è riuscito ad arrivare ad Hillary, che ha svuotato tutto l’appoggio di Bernie Sanders in retorica anti-Trump.

Ma l’errore più clamoroso è stato commesso dal Partito nel momento in cui ha deciso di sostenerla: Hillary non poteva chiedere a quei colletti blu (che lei aveva definito “deplorevoli”) di identificarsi in lei – e loro non l’hanno fatto. Il Partito ha scelto un candidato sordo alla sofferenza dell’americano medio, un candidato che “non sentiva la bruciatura”. L’America è il Paese del futuro, in cui si preferisce guardare avanti e non indietro: la campagna elettorale della Clinton puzzava di vecchio – e quel che è peggio è che nessuno se n’è accorto.

Il Partito Democratico americano esce da questa elezione completamente sfasciato e privo di una leadership: Hillary sembrava e doveva essere la guida per i prossimi otto anni. Sulla carta aveva l’esperienza di una vita dalla sua parte, ma aveva sbagliato alcune delle più importanti decisioni (l’invasione dell’Iraq, quella della Libia, la scelta di lasciare senza soccorso l’ambasciatore americano a Bengasi…). Ora la sfida più ardua per i democratici è trovare una nuova figura da cui farsi guidare ed ispirare, e che sia in grado di riconquistare la fiducia di quella maggioranza di cittadini che non vede migliorare le proprie condizioni per molti anni di fila – quei cittadini che hanno finito per votare contro la politica tradizionale scegliendo Trump. Scegliendo l’incertezza del diverso alla certezza del vecchio. Scegliendo il salto nel buio. Ci vuole molto coraggio per compiere una scelta simile. È il coraggio della disperazione.

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