Torniamo a parlare di Iraq, torniamo a parlare di Al Baghdadi, e un po' anche di Obama. A quanto pare, qualcuno della Casa Bianca deve aver percepito l'aria che tira in Iraq, ricordando a Obama quali sono i compiti di una superpotenza che ha fatto dell'esportazione della democrazia e della difesa delle vittime i propri cavalli di battaglia. Per decenni ha mosso guerre con questi due pretesti (spesso abusandone il significato). Ed ora che queste motivazioni sono le più valide per muoversi contro l'ISIS o ISIL, Obama era titubante. Ma si sa, Obama non ha il coraggio che caratterizzava altri Presidenti. (Questa debolezza decisionale ha contribuito a rendere l'America meno "super", si veda anche il fallimento delle trattative di pace tra Israele e Hamas guidate da John Kerry, in favore di quelle guidate dall'Egitto).
Si sa, Obama non voleva agire contro l'ISIS, non voleva contrastarne l'avanzata. E questo ha dato enorme vantaggio al gruppo di guerriglieri, permettendo loro di espandersi più di quanto si potesse immaginare.
Ma è notizia di oggi la decisione di Obama di aiutare l'esercito regolare iracheno a combattere questi miliziani, contribuendo tramite supporto aereo. In parole povere, gli americani cominciano a bombardare le postazioni ISIS.
Non è l'unico ad essersi dato una mossa: Hollande è pronto a dare il sostegno francese in questa missione, i cui limiti Obama ha ben definito: non sarà una missione di terra, non vedrà impiegate forze di terra e la soluzione dovrà essere politica e non militare.
Sempre meglio di niente, direi. Anche se, magari, qualcosa di più si potrebbe fare. E, magari, avrebbe dovuto farlo prima. Ora è un po' tardi per tutti quelli che sono stati costretti ad abbandonare le proprie case a causa della fede religiosa: cristiani e sciiti in primis. A chi spetterà poi? Il compito di rispondere a queste minacce, però, non è solo americano: è di tutto il mondo occidentale. Chissà che altri oltre ad Obama si sveglino presto.